
di Teresa Manuzzi
Trentaquattromila persone forse sono tante, ma non sono abbastanza per far passare il referendum consultivo, sulla chiusura parziale (della sola aria a caldo) e totale, dell’Ilva, che si è tenuto ieri, 14 aprile, a Taranto. Per validare il referendum il 50% più 1 del corpo elettorale della città si sarebbe dovuto presentare alle urne, ma così non è stato. I votanti sono stati il 19% dei 173.061 aventi diritto.
Adesso ci si chiede perché molti elettori, della città perennemente divisa tra “diritto al lavoro” e “diritto alla salute”, non si sono presentati alle urne. I fattori che hanno inibito la partecipazione elettorale dei tarantini sono diversi. Innanzitutto dobbiamo considerare l’alta percentuale di astensionismo che ha pervaso tutte le consultazioni degli ultimi mesi. La bassissima partecipazione proprio del quartiere “Tamburi” ( il più vicino all’Ilva, quello che il ministro Clini vorrebbe spostare) è sintomo di un profondo, profondissimo, rifiuto e mancanza di fiducia nelle istituzioni e nei metodi tradizionali di democrazia diretta.
Inoltre c’è da considerare che il referendum promosso era “consultivo”, ovvero una sorta di termometro per cercare di interpretare il sentimento popolare, ma per niente vincolante ai fini di una ipotetica azione da parte del comune o di altri enti. Molti tarantini infatti commentano sui social network “Tanto non sarebbe cambiato nulla”. Il fatto che il referendum fosse “consultivo” ha quindi di fatto agito come deterrente per gli stessi votanti.
La chiamata alla urne di ieri è stata proposta ben 6 anni fa, nel 2007, dal comitato “Taranto Futura”. Le intercettazioni telefoniche del 29 luglio 2010 tra il pr dell’Ilva, Girolamo Archinà (oggi in carcere) e il sindaco Stefàno possono aiutare anche a comprendere appieno il ruolo che la politica tarantina ha spesso avuto all’interno della “questione Ilva”.
Archinà: “La data del referendum… la più lontana possibile”.
Stefàno: “Va bene”.
Archinà: “Per farci stare un po’ tranquilli”.
Stefàno: “Tranquilli, va benissimo, ciao Girolamo”.
Ma Archinà non è certo il solo a contrastare la partecipazione popolare al voto, i tre sindacati confederati (CGIL, CISL e UIL),Coldiretti e Confindustria si sono espressi chiaramente per il “non voto”. C’è poi la grande assente in tutto questo: la politica. A parte i Radicali, e un timido “Sì” da parte di SEL (da apporre però solo al quesito sulla chiusura dell’area a caldo), i partiti hanno preferito non esprimersi, non prendere parte all’agone politico.
Alessando Marescotti, di Peacelink, commenta così i risultati a caldo sulla bacheca di Facebook: “Secondo me 34 mila persone che vanno a votare è la più grande mobilitazione che c’è mai stata a Taranto sulla questione Ilva” […] “Con quelle 34 mila persone si può cambiare Taranto. Invece con chi non partecipa (e magari critica pure) non si cambia nulla. […] Taranto non ha fallito. Ora talloneremo l’azienda sulle inadempienze dell’AIA. Ai parlamentari chiederemo una legge che cancelli la legge Salva-Ilva. Sulla questione dei piombo nel sangue dei bambini scateneremo una campagna senza precedenti. Sulla questione delle bonifiche non fatte e del principio del “chi inquina paga” andremo alla Commissione Europea. Abbiamo tante iniziative e andremo all’attacco. Con l’appoggio di 34 mila persone Garibaldi avrebbe fatto l’Unità d’Italia in tre mesi. A lui ne bastarono mille e non fece il piagnone”.
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