
“L’immagine che mi viene in mente quasi ogni giorno è quella di un monaco zen che si siede nella sua cella, prende un bel pennello, lo intinge nel mortaio dove ha sparso la china e con grande concentrazione fa un cerchio che si chiude.”
Quando sfidi il destino per dovere di cronaca, da una nazione all’altra – Italia, Cina, Giappone – diventi testimone scomodo del mondo, con tutto ciò che quella scelta concerne. Metabolizzi abitudini, usanze, credenze, scopri i segreti, i limiti, le debolezze. Accumuli esperienze.
Tiziano Terzani è arrivato al capolinea della sua esistenza, almeno di quella terrena: terminata la carriera giornalistica, scopre di avere un tumore all’intestino, ma invece di arrendersi, scopre una nuova forza dentro di sé, che lo porta a rivalutare ogni cosa. In quel momento, da una vita trascorsa all’insegna dell’informare gli altri, migra verso una vita tesa a cercare di conoscere sé, il proprio male e – soprattutto – il senso della vita stessa.
Decide di richiamare da New York il figlio Folco, per condividere gli ultimi chilometri dell’esaltante cammino terreno e cercare di capire e far capire che ha avuto un senso. Il figlio, dapprima recalcitrante, accorre, poi, armato di registratore e taccuino, per ascoltare e fissare per sempre tutto ciò che “i’ babbo” ha da comunicargli.
Confinato tra la casa – dove mangia – e una specie di baita dove dorme e che propone un arredamento a metà tra quello di un monaco zen e di un monaco tibetano, dei cui valori si fa portavoce (ascetismo, individualismo, silenzio), Tiziano Anam (senza nome) si trascina nel giardino della sua casa di Orsigna, si siede, racconta, si alza, si sdraia, ride, critica, ansima. Osserva la natura comprendendo di essere una piccola parte di un qualcosa di sconfinato.
Muovendo dalla concezione tibetana della morte, comprende che essa è la vera libertà, conseguenza naturale della vita stessa: la morte viene accettata con ironia, come momento del passaggio verso quel “qualcosa (o qualcuno) che tiene assieme tutta questa roba”, che tiene assieme, cioè, tutto l’universo. Perciò, se si è condotta una vita libera, nella quale si è vissuto secondo l’idea dannunziana di opera d’arte, allora non si deve in alcun modo provare rimpianto, ma anzi bisogna farsi una bella risata, perché il cerchio si sta per chiudere. Non bisogna temere la morte perché è un qualcosa attraverso la quale tutti – prima di noi – sono passati.
Appassionato di uccelli esotici, patito per il Tibet, deluso dal comunismo cinese, miracolosamente scampato a una fucilazione, decide di raccontarsi a Folco. Non un testamento, ma una biografia raccontata, fatta in presenza dell’interessato, alla ricerca di un dialogo con un figlio che, nel corso dell’esistenza, c’è stato solo a tratti. L’obbiettivo di Tiziano è, attraverso un’immersione panica con la natura, trasmettere al figlio l’essenza di ciò che ha imparato. Quello stesso dialogo che ha come finalità la realizzazione di un libro (“Ormai mi incuriosisce di più morire. Mi dispiace solo che non potrò scriverne”), ma anche e soprattutto il ricucimento di un rapporto sfilacciato e la ricerca di una maggiore intimità nel momento estremo.
L’aspro litigio che vede impegnati i due protagonisti, segna l’effettivo momento di distacco: a un padre che lo accusava di mancanza di personalità, Folco replica con la reazione di uomo maturo e autoritario. Il padre capisce perciò che il suo compito è finito, che Folco adesso, dopo queste lunghe chiacchierate, è finalmente diventato grande.
“La vita si conclude… è questo il cerchio che ora io cerco di chiudere.”
Nicola
9 dicembre 2011 at 18:54
Io lo chiamo l’OSHO de noi altri, non per sminuirlo, ma anzi, per sottolineare come si può arrivare allo stesso punto dei grandi mistici indiani, conservando una certa “occidentalità” di pensiero. Grande Terziani!