
Ci sono film che restano nella memoria di chi li visiona perché dotati di quella leggerezza pe(n)sante che non sfocia mai nella superficialità, tantomeno nel corollario soffice che vorrebbe opporsi alla durezza della vita. Film che sono schegge di quotidianità, istantanee della vita di tutti i giorni e di tutti i tempi, quelli che segnano le lancette degli orologi e quelli soggettivi, bergsoniani o proustiani che dir si voglia.
D’altra parte diceva Pulcinella che, nel momento in cui due orologi avessero segnato la stessa ora, quel giorno avrebbe segnato la sua dipartita. Tragicomica anch’essa. Les Adoptes, anteprima italiana al Bifest e film d’esordio da regista di Melanie Laurent (attrice che tanto abbiam apprezzato ne “Il concerto” e in “Bastardi senza gloria”, altro antieroico film quest’ultimo, dove il “gioco” della guerra è connotazione sublime della sua tragicità realistica) è una soffice nuvola emotiva di rara intensità e bellezza, gli spigoli dell’esistenza estremamente arida e dura sono sofficemente smussati dal sorriso dei personaggi, giani bifronte che – di fronte al trauma di una perdita – si trasformano in duplici entità apollinee e dionisiache al contempo, la morte si tinge di vita e rende quest’ultima apparentemente vivibile, apparentemente mutabile nelle sue idiosincrasie. Due sorelle che sono, a loro modo, siamesi, pur non essendo legate nel corpo. Le unisce la mente, il gesto, il sorriso, connotati che stemperano il drammatico grigiore del quotidiano e lo rendono fluido rasserenante dell’animo, balsamo di raro sapore mistico che cancella e poi nutre la mefitica aria drammatica della vita che, quando meno te l’aspetti, ti colpisce e rende la tua esistenza sospesa tra la (non)vita e la (non più)vita, il sottile filo di un’esperienza che va scivolando nell’oblio del non ritorno.
Ecco che l’opera prima della Laurent – coerente capitolo di cinema francese contemporaneo che assaggia piccoli bocconi dai classici (da Rohmer a Tavernier) – si fa moderna nella rigenerazione del vissuto, nella battuta di spirito quando il momento è tragico, per poi invertire completamente la rotta e rendere spiazzante un grido dell’animo, un cuore che si spezza, un bambino che parla con l’anima di chi ama.
Ci sono i libri in questo film, che segnano le parole da dirsi, le lacrime bloccate e poi lasciate scorrere, l’amore e il sesso che assumono caratteristiche di rara pulizia emotiva e mentale, c’è un cordone ombelicale solido che lega due sorelle e la loro madre, un uomo che dovrebbe bere e fumare meno, un bambino che è già individuo con annessi e connessi, i battiti cardiaci vengono meno e, quando questo succede, altri battiti cardiaci aumentano. Ogni morte vuole una vita in cambio. Ogni vita vuole qualcuno che abbandoni il mondo dei viventi. È il gioco di scambio, è la bergmaniana partita a scacchi che si gioca ogni santo giorno, il borgesiano labirinto dell’esistenza dove, tra un amore andato a male, un abbandono, la voglia di gioire che è rotta dall’imprevisto truce e crudele, sempre l’uomo è pedina di un ingranaggio enormemente inspiegabile, assolutamente misterioso come dio (volontariamente scritto con la minuscola) che forse, a suo modo, si pone le stesse domande dell’uomo.
Ecco che la morte non può spezzare l’ironia dell’eventualità che ci sia sperma tra i capelli dopo un’avventura di sesso passeggero, la morte non può negare il piacere di un dolce sul palato e di qualche chilo acquistato, la morte non può far smettere la gente di leggere libri e far dire che Fante e Faulkner accanto non possono stare sullo scaffale. La morte deve far sì che la vita sorrida ancor più, questo assunto, questa semplice legge, regge le corde e sostiene l’ossatura del film della Laurent, un piccolo grande affresco di esistenza, un narrare delicato e forte al contempo, un sapiente uso dell’alternanza dei tempi, dei modi, dei dialoghi, degli stati d’animo. Si ride quando è giusto ridere, si soffre quando è giusto soffrire.
Ecco che quella leggerezza (pesante e pensante) fa volare la pellicola nei piani alti di certo cinema moderno, intimista e minimalista a suo modo, condito dalle corde di violini mai toccati e chitarre più accondiscendenti a esser palpate da dita umane, sguardi che sono tutti sguardi di bambini, innocenza delle anime che non si vergognano di esser schiacciate dal grigiore turbolento della vita, essenze che si mescolano. È una sinfonia in pastello il film della Laurent, un raro e lieve momento di sospensione nel caotico mondo circostante, le parole accarezzano, le frasi pronunciate rendono lieve il movimento di una bocca che si muove a seconda dell’avvenimento che percepisce, un pianto, un sorriso, un disturbo, una vulnerabilità, un momento innocentemente lussurioso, perché figlio dell’amore.
Quando vediamo un film come questo ci rendiamo conto dell’ambiguità dell’esistenza, del fatto che l’eterno ritorno e la coazione a ripetere si sposano sempre tra loro (come si sposano spesso Nietzsche e Freud), ci rendiamo conto che dobbiamo “vivere” ma, al contempo, “imparare a morire” (e questo è Montaigne).
Pellicola leggera come l’aria, vera come la vita, umile come opera prima ottimamente riuscita.
NIVES USAI
3 aprile 2012 at 14:04
interessante recensione, (con te devo stare molto attenta quando scrivo)quando sbaglio gradisco umilmente mi si corregga.nelle ultime due settimane il lavoro ha assorbito le giornate,ora pero’ potro’ leggere ben volentieri i tuoi articoli vale veramente la pena alla faccia di chi dice che twitter non serve o peggio.andro’ a vedere il film appena sara’in qualche sala in Sardegna ,mi piace la ricercatezza del tuo esprimerti per meglio far assaporare le tue sensazioni che diventano di chi legge.