
di Claudio Santovito
È un’Italia intorpidita dal caldo afoso quella che, l’8 agosto del 1990, ancora stordita dall’ebbrezza del Mondiale ospitato e solo sfiorato, realizza il massacro consumatosi la sera precedente in via Carlo Poma 2, a Roma.
Simonetta Cesaroni, vent’anni, prestava servizio in alcuni uffici dell’AIAG (Associazione Italiana Alberghi della Gioventù) presenti nella palazzina. Era il suo ultimo giorno di lavoro: lo è stato almeno fino alle 17.30 circa, l’ultima volta che ha risposto a una telefonata.
Salvatore Volponi era il datore di lavoro della giovane e non conosceva gli uffici di via Poma. La sera, sollecitato da Paola Cesaroni – sorella di Simonetta – allarmata per il suo ritardo, entrò con lei e il suo fidanzato nell’ufficio e, osservando il cadavere, esclamò: “Bastardo!”. Resta da capire se si trattò di un’esclamazione generica o indirizzata a una precisa persona fisica, chiaramente di sesso maschile. Più volte non si è presentato alle udienze inviando un certificato medico in cui indicava in una forte depressione la causa delle sue assenze.
La scena che si presentò ai loro occhi era a dir poco sconvolgente: la ragazza giaceva per terra, non nella stanza in cui abitualmente lavorava. Nuda, il corpo martoriato da 29 coltellate, con il reggiseno allacciato ma calato, un capezzolo morso, il corpetto arrotolato sul collo, senza slip ma con i calzini ancora ai piedi e le scarpe sportive sistemate ordinatamente accanto alla porta.
Si scoprirà poi che quelle coltellate furono inflitte dopo il decesso – avvenuto per trauma cranico – in maniera quasi scientifica, dato che molte risultano essere simmetriche.
Nell’appartamento si rilevò la mancanza dei vestiti della ragazza e di alcuni effetti personali nella borsetta, oltre alle chiavi dell’ufficio, delle quali possedeva un mazzo. Sulla porta, non furono trovati segni di effrazione, il che significa che Simonetta aprì al suo assassino.
Assassino che forse cercò di violentarla, ma non riuscì ad avere un’erezione oppure la ragazza rifiutò il rapporto e lui, frustrato, l’aggredì. Questa, una delle ipotesi. In ogni caso, tentò di ripulire l’appartamento da potenziali tracce ma qualcuno o qualcosa lo disturbò.
Nella stanza furono rilevate tracce di sangue, recanti DNA maschile: nella borsetta della ragazza, l’agenda di Pietro Vanacore, detto Pietrino, portiere dello stabile. Uno scontrino fiscale svela che alle 17.25 di quel pomeriggio del 7 agosto 1990 Vanacore acquistò un frullino da un ferramenta. Fu arrestato per 26 giorni e poi scagionato perché le tracce di sangue rinvenute sui suoi pantaloni provenivano dalle sue emorroidi: inoltre, il portiere per tre giorni indossò gli stessi abiti sui quali non furono rilevate tracce del sangue di Simonetta.
Fu scarcerato e, una volta in pensione, tornò nella sua Puglia. Ma alle 13 del 9 marzo 2010 Pietro Vanacore fu ritrovato morto sulla scogliera di Torre Ovo, comune di Torricella, provincia di Taranto. Nell’auto lasciò due fogli con scritto “20 anni di sofferenza e sospetti ti portano al suicidio” e “lasciate almeno in pace la mia famiglia”. Non convince questo decesso: secondo il medico legale che eseguì l’autopsia sul corpo del portiere, quest’ultimo fu ritrovato in acqua con una caviglia legata a un albero, ma in quel punto l’acqua era troppo bassa, la zona trafficata e la presenza di scogli avrebbe facilmente consentito un facile ancoraggio, dettato dall’istinto di conservazione. Si era procurato del “Paraquat”, un anticrittogamico che ingerì dopo aver assunto una zeppola e dei pezzi di pane per prevenire il vomito.
Due giorni dopo avrebbe dovuto deporre nell’udienza in cui Raniero Busco era l’unico indagato. Non è l’unico defunto di questa storia: anche Cesare Valle, ricco costruttore e inquilino dello stabile, spesso assistito da Vanacore, scompare nel 2000, seguito nel 2005 da Claudio Cesaroni, papà di Simonetta, che aveva più volte pregato di non morire senza aver visto in faccia l’assassino di sua figlia.
Nell’ultimo mese, però, il processo è ripreso: se le indagini precedenti avevano valutato come un morso quel segno sul capezzolo e rilevato il DNA del fidanzato di Simonetta, Raniero Busco, condannandolo a 24 anni di carcere, la nuova perizia ha rivelato che i segni sul capezzolo in realtà derivano da un’unghiata o un pizzico.
Un morso, infatti, deriverebbe da una posizione dell’aggressore “incompatibile a un essere umano”.
Sul corpetto sono stati rinvenuti tre DNA maschili, mentre sul reggiseno due campioni prelevati appartengono al DNA di Busco. Secondo la testimonianza della madre della ragazza, la figlia era molto avvezza alla pulizia e cambiava sempre abbigliamento e biancheria intima, perciò non potevano provenire da effusioni scambiate la sera precedente.
A sostegno di questa teoria, occorre rilevare che sulla porta e sul telefono furono trovate tracce non compatibili con Busco, così come nell’ascensore, nel quale però spiccava anche una traccia ematica di Simonetta. Vicino al telefono, inoltre, fu trovato un foglietto di un notes con la scritta “CE DEAD OK”, con su il disegno di una margherita. In seguito, si apprenderà che fu un appunto lasciato da un poliziotto distratto durante i rilevamenti, probabilmente lo stesso che spense il pc sul quale aveva lavorato Simonetta.
Secondo le nuove indagini, inoltre, è cambiata l’ora del presunto decesso: inizialmente individuata tra le 17.15/17.30 e le 18/18.30, si è spostata adesso tra le 18 e le 19, rivoluzionando così tutti gli alibi e scagionando una volta di più Raniero, dato che alle 19,45 l’uomo fu visto in un bar prima di iniziare il turno di lavoro in aeroporto.
Si è trattato, allora, di un delitto casuale o premeditato? E chi era quell’uomo alto uno e ottanta, con un cappello a visiera e con addosso un involucro, che fu visto da Giuseppa De Luca – moglie di Vanacore e anch’ella portiera – uscire a testa bassa dalla scala B dell’immobile attorno alle 18 del 7 agosto 1990?
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