
di Enrico Bellelli
La drammatica crisi economica e il riacutizzarsi delle tensioni sociali hanno favorito in Italia il ritorno a spinte populistiche e al crescente rifiuto della politica. Una sorta di riedizione logora e ingiallita dello spirito del ’92, con l’astensionismo di massa e i lanci di monetine, ma senza il miraggio di una “Seconda Repubblica” né di riforme radicali del welfare state e degli assetti istituzionali. Entrata in crisi anche l’ultima ideologia del secolo -il neoliberismo- con le difficoltà interne alla coalizione di centrodestra e la crisi economica mondiale a smentire l’ottimismo di un tempo sulle virtù della “mano invisibile”, resta solo un generico rifiuto della politica tout court che si esprime in movimenti di protesta sterile e campagne mediatiche che individuano nella “casta” parlamentare e nella sua presunta onnipotenza il principale bersaglio da colpire. In realtà il principale problema dell’Italia di oggi, da cui discendono a cascata tutti gli altri e di cui nessuno parla, non è l’onnipotenza della classe politica ma proprio la riduzione della politica nazionale al livello dell’ordinaria amministrazione.
Da paese “a sovranità limitata” quale eravamo negli anni della Prima Repubblica, stiamo diventando rapidamente un paese a sovranità zero in cui chiunque sieda a Palazzo Chigi si trova ormai stretto tra due fuochi: quello della globalizzazione, dell’Europa e dei mercati finanziari internazionali, che con i loro vincoli e con le loro spinte destabilizzanti influenzano le scelte politiche; e quello della fuga nelle segmentazioni sociali e territoriali che bloccano qualunque opera pubblica o riforma del welfare. Tra globalismo e particolarismo, i margini per incidere sulla realtà sono per un qualsiasi Governo italiano quanto mai esigui.
Non a caso i programmi dei due principali partiti politici nazionali sono fra loro sempre più simili. Non si parla più, come ancora negli anni Novanta, di grandi scelte di campo fra liberismo e socialdemocrazia. Si parla ormai solo di accise sulla benzina e di carovita,di piccoli ritocchi all’Irpef e modesti sgravi fiscali. Come se con questi piccoli aggiustamenti fosse davvero possibile colmare il gap che separa l’Italia dal resto del mondo occidentale. Abbiamo privatizzato senza criterio gli ex colossi di Stato, senza distinguere fra aziende decotte e settori industriali strategici, spesso solo per dismettere o consegnare i secondi nelle mani di monopolisti privati abituati a muoversi in un’ottica di investimento a breve termine.
Abbiamo perso ogni controllo sul modello di sviluppo e sul destino dei nostri principali settori industriali (vedi il caso Fiat o Alitalia) , mantenendo al tempo stesso in vita i pilastri del peggior assistenzialismo: dalle pensioni di anzianità agli Ordini professionali. Il “federalismo” è stato un disastro: non ha portato a maggiore efficienza e responsabilizzazione degli amministratori pubblici, ma solo a un localismo opaco e familista privo anche di quel tanto di visione sistemica e senso di fedeltà ideologica che ancora caratterizzava gli uomini della Prima Repubblica.
Per uscire dall’empasse in cui il Paese si trova è necessario da un lato portare avanti una rivoluzione liberale in larga parte ancora incompiuta innalzando l’età pensionabile per aumentare le pensioni minime, sostituendo la Cassa Integrazione Straordinaria con il “welfare to work” (sussidi di disoccupazione subordinati alla disponibilità ad accettare offerte di lavoro alternative), abolendo gli Ordini Professionali; dall’altro recuperare la capacità di governare i nostri processi di modernizzazione re-istituendo la golden share (l’azione d’oro dello Stato su settori ad alto valore strategico quali energia e trasporti) e scorporando la spesa per opere pubbliche dal calcolo delle voci del debito. Ma soprattutto occorre difendere, per quanto possibile, il diritto di ciascun Paese europeo a intraprendere politiche autonome in materia di industria, formazione e occupazione.
L’Europa, infatti, non è veramente alternativa agli Stati nazionali. Sebbene accomunati da un’unica moneta e da esigenze di contenimento della spesa, gli Stati europei restano diversi per capacità produttiva, livello di indebitamento, tasso d’inflazione, prevalenza della grande industria rispetto alla piccola e media impresa. La camicia di forza di un unico modello di sviluppo, baricentrato probabilmente su quello franco-tedesco, avrebbe probabilmente come unica conseguenza quella di favorire lo spostamento di capitali dal Sud al Centro dell’Europa, accentuando gli effetti depressivi che il modello economico “renano” ha già imposto da tempo ai paesi dell’area mediterranea. Qualche economista controcorrente ha accennato addirittura alla possibilità di abbandonare l’euro. Qualcun altro ipotizza un’Europa “B” che guarda ai Brics, comprensiva di Italia, Spagna, Grecia, Portogallo ed eventualmente della Francia.
Personalmente credo che questi temi meritino una certa cautela almeno quanto quello, altrettanto delicato, di un ipotetico abbandono della Nato: l’Italia è purtroppo affetta da debolezze strutturali quali il debito pubblico che qualora il Paese venisse abbandonato da solo in mare aperto potrebbero raderlo definitivamente al suolo, complice la speculazione. Ma è altrettanto evidente che se il mercato non può vivere di automatismi, delegare interamente la politica economica ad organi comunitari che, quand’anche fossero democraticamente eletti, avrebbero nella popolazione italiana solo una minima parte del proprio elettorato, condannerebbe definitivamente l’Italia a divenire la polveriera degli Stati Uniti d’Europa. Se abbiamo davvero a cuore le sorti del Paese, forse sarebbe ora di adottare anche nei confronti dell’Ue un atteggiamento un po’ meno superficiale ed ingenuamente entusiasta.
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