di Giuseppe Ceddia
Dopo due anni di attesa arriva finalmente nelle nostre sale “Silent souls” di Aleksei Fedorchenko, film rivelazione al Festival del Cinema di Venezia nel 2010, dove vinse il Premio della Critica internazionale e quello per la miglior Fotografia.
Due amici appartenenti all’etnia ugro-finnica dei Merja, situata nel centro-ovest della Russia, la moglie di uno dei due muore e, secondo tradizione, il corpo deve essere minuziosamente lavato, avvolto in un panno e poi – cosparso di vodka – bruciato nei pressi del mare, il quale porterà con sé le ceneri.
È un piccolo grande film questo, un road-movie a suo modo, dove a scandire il tempo sono i cinguettii di due uccellini in gabbia che accompagnano i protagonisti durante il viaggio, un’automobile, due uomini, due piccoli volatili, sul sedile posteriore il corpo nudo della donna defunta, avvolta nell’umile sudario che la porterà a dileguarsi nelle acque marine.
Il silenzio e l’acqua. Scenari naturali meravigliosi esaltati da una splendida fotografia contengono il silenzio dell’esistenza, un film che è una poesia sulla vita, sulla morte (che di essa è chiusura ciclica), sull’amicizia, sull’amore, sulla concezione della donna da viva e poi da morta.
Se il silenzio fosse un colore diremmo che questa pellicola è una “sinfonia in silenzio maggiore”, un silenzio che – a suo modo – produce sussulti nell’anima, reazioni umane, lacrime che rimangono ferme sulle ciglia ma non scorrono lungo le guance, parole essenziali in un’epoca, la nostra, in cui si parla troppo e male.
Anche le poche parole che connotano i dialoghi del film sono facenti parte della natura, gli esseri umani si fondono a essa e, in qualche misura, si fanno complici del ciclo della vita scandito dalle ore, dai colori del giorno, dalle variazioni temporali e climatiche che sono variazioni dell’inconscio, del suo essere nascosto ma caparbiamente vivo.
Se la vita è silenzio, la morte scorre come l’acqua. È quest’ultima che raccoglie le anime, i morti diventano parte del divenire liquido dell’acqua che scorre, le ceneri si fondono con un mare uggioso e anch’esso vivo.
La dinastia Merja è fuori dal tempo, le usanze sono piccole cartoline seppiate che conducono per mano lo spettatore in un viaggio esistenzial-antropologico raccontato con l’umiltà delle parole di un uomo che, nel film, assurge a ruolo di cantastorie. A chi scrive son venuti in mente i racconti del russo Leskov (autore analizzato da Benjamin nell’ Angelus Novus), proprio per questa fusione della tradizione con il vivere quotidiano, una tradizione che non muore e si innesta nel divenire del mondo, la parola, che non è solo quella scritta (non a caso l’uomo che racconta si cimenta anche con la scrittura, ereditata dal padre il quale consegnò alle acque la sua macchina da scrivere) è anche quella della tradizione orale, raccontata dagli antenati.
Ma forse, a un’analisi più decisa e destrutturante, possiamo dire – come sopra accennato – che i protagonisti di questo film non sono tanto gli esseri umani quanto i loro umori, protagonista è il silenzio che ha come sua sposa l’acqua che scorre.
Il tempo di un viaggio (la vita) si conclude nell’arrivo (la morte) in acqua. La solidità del silenzio vitale sfocia nella liquidità mortuaria del mare.
Ce ne fossero di film come “Silent souls”, piccoli tasselli levigati di esistenze umili, di usanze che non vogliono saperne di scomparire, di dignità portata come baluardo sulle spalle della vita, in silenzio. La natura non ci è nemica, accoglie le nostre ceneri, l’acqua culla l’anima dell’uomo durante il trapasso, si resta più soli ma anche più poeticamente fusi con il mondo, con le stagioni, con gli animali che – a volte – avvertono l’avvento della fine prima dell’uomo. Un film molto bello partorito dal silenzio di un mare calmo.
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