di Claudio Santovito
Sicuramente il povero Pietro Angeleri in questi giorni si starà rivoltando nella tomba. Già nel 2009, a seguito del terremoto a L’Aquila, le sue spoglie terrene (che fortunatamente non subirono danni) furono spostate. Non affannatevi a cercare su Google, sto parlando del Papa passato alla storia come Celestino V e noto nella letteratura dantesca come colui “che fece per viltade il gran rifiuto”, collocato dal Poeta tra gli Ignavi dell’Inferno. Le prossime dimissioni di Papa Benedetto XVI, annunciate per le ore 20 del prossimo 28 febbraio, hanno generato facili paragoni, specie se rapportate alle parole di Giovanni Paolo II scolpite nel cuore di tutti i cristiani: “Cristo è rimasto sulla Croce e dalla Croce non si scende”, a testimonianza di un pontificato – meglio, di una missione – conquistato tra lo stupore generale, entrato nella storia e portato avanti con i denti e le unghie, in una Via Crucis estenuante ma generosa di messaggi positivi per l’intera umanità e condivisa con un male, il Parkinson, che rendeva ancora più arduo il cammino già ripido per la vecchiaia.
Se il povero Celestino V, timorato di Dio (è il caso di dirlo), fu vittima di angherie e complotti perpetrati da Carlo d’Angiò e Benedetto Caetani (suo successore al soglio di Pietro con il nome di Bonifacio VIII, protagonista poi dello schiaffo di Anagni), per Ratzinger la situazione è diversa: il suo corpo ottantacinquenne non regge più. Già provato da un’eredità pesante, quella di Wojtyla, ha forse voluto dare un forte segnale alla Chiesa e ai poteri politici: a Roma, infatti, non c’è solo il Vaticano, ma lì vicino fanno fatica a dimettersi.
Tecnicamente quelle del Papa non possono essere definite dimissioni, piuttosto è corretto parlare di abdicazione (rinuncia a una carica), come previsto dal Codex Iuris Canonici, laddove si legge, al canone 332 “[…]Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti […]”. Senza ritorno e senza contestazioni.
È corretto, infatti, parlare di una svolta epocale in Vaticano: quella definita dal Pontefice “una libera scelta” (che ricorda molto “la Libera Chiesa in Libero Stato”, dove ognuno pensa a sé ma contestualmente controlla l’altro) avrà una conseguenza visibile (la coabitazione di due papi, uno regnante e visibile, l’altro emerito e “nascosto al mondo”), ma soprattutto sembra infrangere il dogma dell’infallibilità papale che, essendo giocoforza rappresentata da una persona in carne ed ossa, è suscettibile delle sue pulsioni e delle sue debolezze, psicologiche ma soprattutto fisiche. Oppure, sempre alla luce della pesante eredità di Wojtyla e di un pontificato portato avanti tra luci ed ombre, è più corretto parlare dell’unica soluzione per entrare nella storia? Un Papa moderno e modernista, teologo di vocazione, che sceglie il passo indietro, specchio di una Chiesa che ha bisogno di riflettere e guardarsi attorno, facendo delle dimissioni la vera svolta del proprio pontificato?
Ma quali sono i papi che si sono “dimessi”? Certo, è difficile avere fonti certe per un Ufficio che dura almeno da due millenni: eppure, curiosando sulla rete, qualche informazione si trova. Bastano due mani per contarli, stando alle fonti: Clemente I (che nominò suo successore Evaristo), Ponziano, Silverio, Giovanni XVIII, Benedetto IX (che abdicò in favore di Silvestro III per poi riassumere la carica e rivenderla a Gregorio VI, accusato poi di averla ottenuta in modo illegittimo e quindi costretto ad abbandonarla), Gregorio VI, Celestino V, Gregorio XII, papa che regnava a Roma durante lo Scisma d’Occidente, mentre Benedetto XIII era papa ad Avignone e Giovanni XXIII – Baldassarre Cossa, non certo il “buono” Angelo Roncalli – a Pisa e, appunto, Benedetto XVI.
“Nuntio vobis gaudium magnum: Habemus Papam! Eminentissimum ac reverendissimum Dominum, Dominum…?”
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