
di Teresa Manuzzi
Un pompiere riferisce a un giornalista del telegiornale regionale del Lazio che a Vermicino, nei pressi di Frascati, un bambino è scivolato in un pozzo la sera prima, ma è questione di minuti e lo tireranno fuori. Inizia così, l’11 giugno del 1981, la diretta del TG1 per dare la buona notizia conclusiva del TG delle 13:00. Ha così inizio la più lunga diretta televisiva a reti unificate della storia della televisione italiana. Sì, la più lunga. I vari tentativi messi in campo per salvare il bambino vanno avanti giorno e notte, notte e giorno per tre giorni. L’Italia rimane incollata alla TV, per seguire le operazioni di salvataggio, le ultime 18 ore sono di diretta ininterrotta nell’inutile attesa della felice conclusione dell’incidente. A Vermicino si reca addirittura il presidente della Repubblica, Sandro Pertini.
Che fine ha fatto il giornalista?
Dopo tutte quelle ore di diretta, il giornalista ha perso del tutto il suo ruolo. Non è più l’intermediario, che filtra, interpreta e rielabora le situazioni e le immagini. I giornalisti presenti a Vermicino molto spesso non parlano, cedono il microfono ai Vigili del fuoco e alla madre del bambino. Il resto lo fanno le immagini e l’audio. Il microfono nel pozzo, i respiri sempre più flebili, i rantoli che nessuno avrebbe voluto sentire, le parole, poche e smozzicate. Non c’è più bisogno delle parole, non c’è bisogno di descrivere, di abbellire, di mitizzare o di aumentare la suspense con una virgola o con i tre puntini di sospensione. La diretta ruba il lavoro ai cronisti, che si ritrovano, anche loro, a rivestire il ruolo di spettatori.
venti milioni di italiani trattengono il respiro in attesa del lieto fine, e invece apprendono la brutta notizia da uno dei medici presenti sul luogo. Ancora una volta non è il giornalista a informare della tragedia consumata. Certo, i pezzi vengono ancora pubblicati sui quotidiani, ma la scrittura ha qualcosa di superfluo, il lettore ha visto le stesse scene che ha visto il giornalista. I pompieri, messi sotto pressione dalla stampa, perdono il controllo e la calma. Ordinano ai giovani speleologi giunti sul posto di stare fermi, perché il bambino lo tireranno fuori loro. Credono sia una cosa facile, vogliono mostrare alla TV che è lo Stato a risolvere il caso e non dei giovani speleologi capelloni.
Quando i pompieri si rendono conto della inadeguatezza dei mezzi a loro disposizione, chiedono aiuto agli speleologi, ma è troppo tardi. Il circo mediatico che si è creato attorno all’incidente, molto probabilmente, ha decretato anche la fine tragica del bimbo.
È stato tutto un errore
Nessuno si aspettava che una notizia nata come cronaca locale potesse avere un impatto emotivo così forte sull’intera nazione. Gli stessi giornalisti, però, si rendono conto che a creare l’evento sono stati loro stessi e che quel bambino non meritava quel trattamento. Senza alcun dubbio la diretta è stata un errore. Un errore dettato dall’inesperienza e dalla mancata conoscenza della potenza del mezzo televisivo. Anche dalla riflessione e dall’autocritica originata dal caso di Alfredino Rampi, nasce la Carta di Treviso (1990), che mira a tutelare il minore comunque coinvolto in casi di cronaca.
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