
di Mariangela Lomastro
La maggior parte dei lettori probabilmente non avrà mai sentito parlare della carbon bubble, ma pare che sia invece uno dei temi al centro dei dibattiti del mondo anglosassone. A parlarne recentemente è proprio una italiana, Margherita Gagliardi, diplomata del Master in Green Management, Energy and Corporate Social Responsibility (Mager) nel 2013, nonché Communications Officer di Carbon Tracker Initiative, il think tank londinese che si propone di diffondere la consapevolezza della carbon bubble.
Ma spieghiamo cosa è la carbon bubble o “bolla di carbonio”. Secondo i sostenitori di questa teoria, le società attive nel settore degli idrocarburi sarebbero estremamente sopravvalutate, perché spiega la Gagliardi “molte delle loro riserve potrebbero non essere mai utilizzate se i governi prendessero piena coscienza del problema del riscaldamento globale e decidessero di intervenire in modo efficace. E si tratta di investimenti per miliardi di dollari”.
Attualmente il prezzo degli idrocarburi viene calcolato in base al presupposto che saranno consumate tutte le riserve di combustibili fossili. Secondo il Comitato del Regno Unito sui cambiamenti climatici, la sopravvalutazione delle aziende che producono combustibili fossili e gas a effetto serra rappresenta una grave minaccia per l’economia. Per tale motivo, anche la Banca di Inghilterra e lo stesso G20 hanno dichiarato di voler investigare il fenomeno.
Le valutazioni delle riserve di combustibili fossili e delle aziende del settore estrattivo sono prevalentemente guidate dal flusso di cassa previsto dai progetti estrattivi delle riserve che saranno monetizzati nel corso dei prossimi 10-15 anni e non dal valore delle risorse “probabili” e “possibili” che potrebbero essere commercializzate su una linea temporale più lunga. Lo scoppio della bolla richiederebbe un brusco cambiamento nel complesso sistema energetico globale. Le aziende hanno cominciato a coprire il rischio di carbonio a lungo termine, investendo in nuove tecnologie e diversificando i portafogli geograficamente e per tipologia di risorsa.
Il think tank di cui fa parte la Gagliardi è finanziato da fondazioni filantropiche americane e britanniche ed è molto specializzato: vuol evidenziare i rischi degli investimenti nelle industrie degli idrocarburi per poi passare il testimone ad altri per l’indicazione delle soluzioni.
In un articolo pubblicato su The Guardian lo scorso gennaio, si fa proprio riferimento al nuovo studio pubblicato sulla rivista Nature, in cui si afferma che almeno un terzo del greggio, la metà delle riserve di gas, e l’80% dei depositi mondiali di carbone dovrebbero restare sepolti dove sono almeno fino al 2050. Solo così si può sperare di non superare la soglia dei 2 gradi centigradi di aumento della temperatura globale entro la fine del secolo. La nuova ricerca dell’University College London (UCL), è la prima a identificare quali riserve non devono essere bruciate se vogliamo mantenere l’aumento della temperatura globale sotto 2°C; tra le riserve individuate c’è il 90% delle riserve di carbone degli Stati Uniti e dell’Australia e quasi tutte le sabbie bituminose canadesi.
Riscaldamento globale e carbon bubble sono dunque i due risvolti della stessa medaglia. Da un lato preservare il pianeta, dall’altro preservare l’economia del settore idrocarburi. Un gioco di equilibri sui cui ormai i Governi devono cimentarsi e dare delle risposte.
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