
Turbolenta ma interessante fu la vita di Alberto Burri che, rispetto agli altri grandi artisti del Novecento, prima di morire donò a Città di Castello, luogo della sua nascita, un museo ed un’imponente collezione. Nel museo viene conservata gran parte della sua produzione, divisa tra le sale quattrocentesche di Palazzo Albizzini e gli ex essiccatoi del tabacco.
Privato dall’esperienza della guerra, vissuta in prima linea come medico, quando ritorna nella sua città, sente il bisogno di esprimere creativamente gli orrori e i turbamenti vissuti. Ne sono un grandioso esempio le sue tele ricoperte da sacchi di iuta, strappati e lacerati, come se fossero ferite. Con SZ1, il primo sacco stampato dal Burri nel 1949, il genio artistico, ma sostituì il colore ai soliti materiali pittorici quale nuova qualità della realtà. La materia nelle sue opere è dunque sofferente, bruciata, contorta e tagliata. Famose in tutto il mondo sono le sue composizioni di legno, plastica e ferro combuste, in cui la fiamma ossidrica è usata come pennello. Una strepitosa collezione di circa 130 opere suddivise in venti sale e secondo cicli e un preciso ordine cronologico: dai “Catrami” ai “Sacchi” degli anni cinquanta ai “Cellotex” e “Multitex“. Una grande presentazione da cui traspare la contraddizione intellettuale tra armonia e furore, che fa emergere la grandezza di questo eclettico artista.
In occasione del Centenario della nascita del Maestro, avranno luogo una serie di iniziative per celebrare l’evento a partire dal 1 ottobre in varie città italiane ed estere, con mostre, convegni, giornate di studio sull’opera del grande pittore tifernate, che il 9 ottobre verrà ricordato anche in un’ampia mostra antologica retrospettiva, curata da Emily Braun, con oltre cento opere presso il Solomon Guggenheim Museum di New York.
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