
Un bosco di querce antichissimo: “Silva Arboris Belli”. In questa selva stavano dei coloni sfruttati da un feudatario, che imponeva ai suoi sudditi la costruzione di pietre a secco, con assoluto divieto di fare le case con la malta. Da quella prepotenza nacque la meraviglia che sfida i secoli: i trulli, espressione di una civiltà contadina che non terne confronti.
Nel 1654 il Conte di Conversano Giangirolamo Acquaviva, detto il “Guercio di Puglia“, a seguito di denunzia da parte del Duca di Martina, fu inviato a presentare alla Regia Camera idonee giustificazioni in merito all’abusiva costruzione del casale di Alberobello. Nel 1797, sette rappresentanti della comunità riuscirono a conferire con il re Ferdinando IV di Borbone, in occasione di una sua visita a Taranto, per prospettargli la precaria situazione giuridica del loro villaggio e per chiedergli l’affrancazione della schiavitù feudale e il riconoscimento di città regia, che ottennero con real decreto del 27 maggio 1797. A 420 metri sul livello del mare Alberobello è un paesaggio ricco di uliveti, vigneti e ciliegeti, con avvallamenti del tipo carsico o con terrazzi, la cui genesi è legata a fenomeni tettonici o a forme determinate dall’azione di erosione delle acque meteoriche sulle rocce calcaree da cui si ricava il prezioso materiale da costruzione per la copertura dei conici tetti, le “chiancarelle”.
Al sole troviamo gruppetti di donne, che filano con la rocca o col fuso; altre gomitolano all’arcolaio; altre sferruzzano e vociano spensieratamente giocando e divertendosi, all’ombra di quelle “cupole”, come le chiamavano i greci e i latini, tra le “casedde”, al cui interno regnano l’ordine, la pulizia, il benessere e il biancore del latte di calce, e “s’intuiscono” l’amore, il dovere, la fatica ma anche la contentezza e la gioia, di un mondo rurale che va scomparendo.
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