
Una lontana terra d’oriente abitata da nomadi ed abili guerrieri cha a cavallo conquistarono il mondo sino alle porte dell’occidente, così raccontava Marco Polo ne “Il Milione” visitando la corte dell’Orda d’Oro. Nelle steppe della Manciuria e della Mongolia, dal Mar Baltico all’Oceano Pacifico, le tribù nomadi asiatiche, il cosiddetto “popolo dei cinque animali“, sotto l’illuminante guida di sovrani come Gengis Khan e suo nipote Qubilai Khan diedero vita, già nel XIII secolo, ad un esteso impero quasi senza più orizzonti.
“Popolo dei cinque animali“: il cavallo, il cammello, lo yak, la pecora e la capra. Così si definivano i mongoli in una lettera di presentazione dipinta su pelle animale che i primi emissari portavano addosso, a mo’ di prime credenziali diplomatiche, unitamente ad un disco di metallo inciso che decorava il collo. Un popolo guerriero eppur pacifico; insediato nei frutti della terra eppur nell’azzurro cielo, indomito, come il destriero che venerava e mistico, come nella religione dei propri padri. Un popolo scaturito dal mistero, all’improvviso, dal vento del deserto. Da qui principia la potenza dei primi “Khan”: capi di un gigantesco dominio che era riuscito a farsi riconoscere quale somma autorità spirituale dai vertici taoisti, buddhisti, islamici ed anche cristiani-nestoriani.
“…Io vengo dal Barbaro Nord. Indosso le stesse vesti e mangio lo stesso cibo dei pastori di vacche e dei mandriani di cavalli. Facciamo gli stessi sacrifici e ci dividiamo le ricchezze. Guardo alla Nazione come a un nuovo figlio appena nato e mi curo dei miei soldati come se fossero i miei fratelli…“. Questo era Gengis Khan, il grande condottiero di un impero di 26 milioni di km quadrati, che governò circondandosi di uomini dotti e saggi, sviluppando l’arte e il commercio, la tolleranza religiosa. Nato tra le selvagge montagne “il giorno chiaro del primo mese dell’estate dell’anno del cavallo d’acqua del terzo ciclo”.
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