
«La nuova rivoluzione industriale è già partita, ed è incentrata sull’analisi dei dati e sull’intelligenza artificiale: macchinari che apprendono e che sono sempre connessi al web, «con sensori che mandano i segnali ai produttori, che li usano per capire i bisogni de consumatori. Oggi la questione per gli imprenditori, quindi, è come gestire e utilizzare al meglio i dati». È questo il tema a cui si è riferito Bill McDermott, amministratore delegato di SAP, il colosso del software per la gestione amministrativa delle aziende.
Industria 4.0: i dati al centro del sistema
La tematica del summit è stata quella dell’industria 4.0. Il termine è stato utilizzato per la prima volta nel 2011 e si riferisce a modello innovativo di produzione industriale, che si basa in modo “esclusivo” su macchinari intelligenti, connessi tra loro e a internet.
«Il futuro non troppo distante – secondo McDermott – è l’internet di tutte le cose, in cui anche la lavatrice che usiamo a casa è smart. La nuova catena del valore per le imprese è allora questa: dati forniti dagli apparecchi-analisi dei dati-esecuzione». Il principio cardine dell’industria 4.0 è l’analisi dei dati in real time, che permette di individuare repentinamente i bisogni dei clienti . «Ad esempio trovando il pezzo di ricambio per un macchinario che ha segnalato un guasto al sistema, e il tecnico per ripararlo, prima ancora che il cliente che è impegnato sappia tutto. Questo è il modello di una rete di business basata sull’internet delle cose, che è possibile realizzare con sistemi di gestione basati sul cloud».
Il dilemma della sicurezza, sistemi troppo volte violati
La “nuvola” ha infatti un ruolo centrale nei software gestionali di SAP: «Non ci interessa dare ai nostri clienti una scatola costosissima con dentro un programma, ha detto McDermott. Quello che facciamo è creare applicazioni adatte alle specifiche esigenze dei nostri clienti, su una piattaforma aperta e con i migliori sistemi di sicurezza, usati anche da governi e istituzioni di tutto il mondo».
«Inoltre – ha continuato – i nostri sistemi funzionano sia sul nostro cloud che in quello dei nostri clienti. Questo è importante ad esempio per le banche e gli uffici pubblici, perché possono tenersi i dati sul proprio cloud. In ogni caso, comunque, noi crediamo nell’importanza della privacy dei dati individuali, che sono e restano proprietà dei clienti. E nei software progettati dai nostri ingegneri non ci sono backdoor».
Innovazione: le piccole e medie imprese hanno bisogno di strumenti adatti
La clientela italiana di SAP è formata da colossi quali: Barilla e Acea, la società che gestisce il servizio idrico nella Capitale italiana e in altre zone del Centro Italia, ma il traguardo, per McDermott, è «far capire anche alle piccole aziende – in Italia sono l’80 per cento – che per crescere nel mercato globale bisogna avere gli strumenti digitali per riuscirci. Fino a qualche anno fa i costi erano proibitivi per molti, ma oggi non occorre acquistare software, hardware e servizi di manutenzione: si possono noleggiare, come si fa con un abbonamento tv, abbattendo i costi. Ogni nuovo posto di lavoro creato nel settore dell’Information Technology ne produce altri dieci nell’ecosistema digitale, e io credo che in Italia occorra aiutare le piccole imprese a creare questo ecosistema».
Il primo step di questo percorso è stato fatto lo scorso autunno dal ministero dell’Economia, attraverso il Piano per l’Industria 4.0 poi inserito nell’ultima Legge di Stabilità. Prevede 13 miliardi di euro di incentivi fiscali da qui al 2024, che nelle intenzioni dovrebbero produrne altri 23 di investimenti privati in nuove tecnologie, ricerca e sviluppo e venture capital (cioè il supporto finanziario nelle prime fasi di vita delle nuove imprese).
Non c’è innovazione senza formazione
L’innovazione e la digitalizzazione passano dalla creazione di sette poli universitari d’eccellenza (i politecnici di Milano, Torino e Bari, la Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, l’Università di Napoli, una rete tra le Università venete considerate come un ateneo unico) in cui formare tecnici e manager, grazie a investimenti diretti e provvedimenti ad hoc. Anche se, i 100 milioni di euro previsti per questo progetto nell’ipotesi iniziale, dopo l’approvazione della legge sono calati a 30 in due anni: circa 4,5 per ogni istituto. Una cifra modesta, che conferma la poca attenzione dell’Italia agli investimenti in ricerca e sviluppo, considerando che il competitor Germania, spende quasi il 3 per cento del suo Prodotto interno lordo in ricerca.
Una voluta anomalia a cui bisogna porre rimedio, attraverso scelte politiche più coraggiose ha concluso McDermott, in quanto «la creazione dell’ecosistema digitale passa anche attraverso le università, che devono formare una nuova classe di giovani capaci di inserirsi in questo mondo». In merito a ciò bisognerebbe aprire un altro capitolo….
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